Kazan: la migliore città per qualità di vita in Russia e capitale dello sport
Testo di Corrado Poli
Kazan è la quinta città più popolosa della Russia e una delle più ricche. È anche considerata la migliore per qualità di vita secondo alcune ricerche. Tra i suoi numerosi monumenti, tra i minareti e le cupole colorate delle chiese ortodosse, proliferano altresì strutture sportive moderne e diffuse. La città ha 1,2 milioni di abitanti e si trova sulle rive del Volga. Capitale del Tatarstan, si colloca al centro di una regione ricca di petrolio.
È una città antica: fu fondata dai Mongoli come una fortezza nel 1005 e divenne in seguito capitale di un potente khanato tataro. Nel 1552 fu conquistata da Ivan il Terribile che vi inviò numerosi russi i quali si mischiarono alla popolazione locale e oggi le comunità russe e tatare si equivalgono per numero di abitanti. I suoi monumenti ne fanno un’interessante meta turistica, ma di geografia, storia e arte parleremo in un altro post. Qui vogliamo sottolineare un aspetto particolare. Il governo della città ha esplicitamente sostenuto una politica di educazione alla salute anche attraverso lo sport. In questo contesto Kazan s’è candidata a ospitare le Olimpiadi. In Russia lo sport fa parte della cultura nazionale e i suoi atleti rappresentano con orgoglio il loro Paese all’estero. Nel 2013 Kazan è stata definita “la capitale dello sport russo” in occasione dell’organizzazione delle Universiadi, vale a dire un’Olimpiade dedicata agli studenti che si sono cimentati in 30 discipline.
Altri importanti eventi ospitati da Kazan furono il campionato mondiale di scherma (2014), quelli di calcio nel 2018 e numerose manifestazioni internazionali di hockey, pattinaggio, nuoto, atletica in cui gli atleti russi eccellono.
Cultura Italia-Russia
Testo di Corrado Poli
Kazan è la quinta città più popolosa della Russia e una delle più ricche. È anche considerata la migliore per qualità di vita secondo alcune ricerche. Tra i suoi numerosi monumenti, tra i minareti e le cupole colorate delle chiese ortodosse, proliferano altresì strutture sportive moderne e diffuse. La città ha 1,2 milioni di abitanti e si trova sulle rive del Volga. Capitale del Tatarstan, si colloca al centro di una regione ricca di petrolio.
È una città antica: fu fondata dai Mongoli come una fortezza nel 1005 e divenne in seguito capitale di un potente khanato tataro. Nel 1552 fu conquistata da Ivan il Terribile che vi inviò numerosi russi i quali si mischiarono alla popolazione locale e oggi le comunità russe e tatare si equivalgono per numero di abitanti. I suoi monumenti ne fanno un’interessante meta turistica, ma di geografia, storia e arte parleremo in un altro post. Qui vogliamo sottolineare un aspetto particolare. Il governo della città ha esplicitamente sostenuto una politica di educazione alla salute anche attraverso lo sport. In questo contesto Kazan s’è candidata a ospitare le Olimpiadi. In Russia lo sport fa parte della cultura nazionale e i suoi atleti rappresentano con orgoglio il loro Paese all’estero. Nel 2013 Kazan è stata definita “la capitale dello sport russo” in occasione dell’organizzazione delle Universiadi, vale a dire un’Olimpiade dedicata agli studenti che si sono cimentati in 30 discipline.
Altri importanti eventi ospitati da Kazan furono il campionato mondiale di scherma (2014), quelli di calcio nel 2018 e numerose manifestazioni internazionali di hockey, pattinaggio, nuoto, atletica in cui gli atleti russi eccellono.
Cultura Italia-Russia
Lev Yashin: Il più grande portiere della storia del calcio
Testo di Corrado Poli
Tra i miti dello sport mondiale un posto d’onore spetta al moscovita Lev Yashin, detto il “ragno nero”. Il soprannome era dovuto al fatto che, ai tempi in cui giocava, i portieri di calcio si vestivano di scuro e lui sembrava che avesse quattro mani e quattro gambe per prendere tutti i palloni. Yashin rimane il più grande portiere della storia di tutto il calcio, l’unico portiere ad avere mai vinto finora il “Pallone d’oro”. Avvenne nel 1963 dopo che aveva difeso la porta dell’URSS ai mondiali del 1958 e del 1962. Partecipò anche a quelli del 1966 e del 1970. Con lui in porta era come mettere una “saracinesca”: la palla non passava. Aveva tutte le doti che si convengono a un portiere: era atletico, aveva il senso della posizione, coraggio nelle uscite e prontezza di riflessi. Ma soprattutto era il vero leader della squadra e impostava la difesa impartendo ordini ai suoi difensori: non stava mai zitto! Il suo gioco era spettacolare e insegnò ai portieri a interpretare il ruolo in modo attivo. Nella sua carriera parò 150 rigori e vinse con l’URSS i campionati europei del 1960 e il torneo olimpico del 1956. La vocazione del portiere la consolidava anche quando giocava a hockey al punto che vinse un campionato con la sua squadra – la Dynamo di Mosca – anche in questo sport. Come tutti i fuoriclasse, la differenza rispetto a un normale giocatore stava nella personalità che Yashin fu capace di esprimere anche fuori dal campo assumendo importanti posizioni nello sport sovietico e russo. Purtroppo, ebbe precoci problemi di salute: nel 1986 gli fu amputata una gamba e nel 1990 morì a causa di un tumore a soli sessant’anni. Era già stato insignito dell’Ordine di Lenin nel 1964 e alla sua morte, fu dichiarato Maestro dello Sport sovietico e gli fu concesso l’onore dei funerali di Stato.
Cultura Italia-Russia
Testo di Corrado Poli
Tra i miti dello sport mondiale un posto d’onore spetta al moscovita Lev Yashin, detto il “ragno nero”. Il soprannome era dovuto al fatto che, ai tempi in cui giocava, i portieri di calcio si vestivano di scuro e lui sembrava che avesse quattro mani e quattro gambe per prendere tutti i palloni. Yashin rimane il più grande portiere della storia di tutto il calcio, l’unico portiere ad avere mai vinto finora il “Pallone d’oro”. Avvenne nel 1963 dopo che aveva difeso la porta dell’URSS ai mondiali del 1958 e del 1962. Partecipò anche a quelli del 1966 e del 1970. Con lui in porta era come mettere una “saracinesca”: la palla non passava. Aveva tutte le doti che si convengono a un portiere: era atletico, aveva il senso della posizione, coraggio nelle uscite e prontezza di riflessi. Ma soprattutto era il vero leader della squadra e impostava la difesa impartendo ordini ai suoi difensori: non stava mai zitto! Il suo gioco era spettacolare e insegnò ai portieri a interpretare il ruolo in modo attivo. Nella sua carriera parò 150 rigori e vinse con l’URSS i campionati europei del 1960 e il torneo olimpico del 1956. La vocazione del portiere la consolidava anche quando giocava a hockey al punto che vinse un campionato con la sua squadra – la Dynamo di Mosca – anche in questo sport. Come tutti i fuoriclasse, la differenza rispetto a un normale giocatore stava nella personalità che Yashin fu capace di esprimere anche fuori dal campo assumendo importanti posizioni nello sport sovietico e russo. Purtroppo, ebbe precoci problemi di salute: nel 1986 gli fu amputata una gamba e nel 1990 morì a causa di un tumore a soli sessant’anni. Era già stato insignito dell’Ordine di Lenin nel 1964 e alla sua morte, fu dichiarato Maestro dello Sport sovietico e gli fu concesso l’onore dei funerali di Stato.
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Due Ivan in un quadro solo
Testo di Emmanuela Castiglione
Ci sono diversi modi di fare un ritratto. C'è il ritratto importante, con lo sfondo monocromo, l'abito elegante e l'espressione seria. C'è il ritratto di genere: persone di una particolare categoria, di cui si evidenziano le caratteristiche. E poi c'è il ritratto che si fa ad un amico, trasferendo sulla tela il suo carattere e accompagnando il lavoro con affetto, complicità ed allegria.
Kramskoj e Šiškin: due Ivan, due artisti, due amici. Šiškin, il più celebre fra i paesaggisti russi, è ritratto da Kramskoj con immediatezza, in modo informale: appoggiato al bastone da passeggio, è pronto per una delle lunghissime escursioni ispiratrici dei suoi magnifici dipinti. Ha tutto il necessario: cappello a larga tesa, comodi stivali, ombrello parasole, borsa a tracolla con gli strumenti del mestiere.
Intorno a lui solo la natura, immersa nella luce del mattino che disegna lunghe ombre al suolo. Dove sta andando Ivan Šiškin così di buona lena? Nella foresta di conifere o in quella di querce? Dal suo sguardo, rivolto verso l'orizzonte, traspaiono la voglia e il piacere di vagare in libertà.
Chi avrà deciso la posa, l'autore o il modello? Di sicuro sarà scappato ad entrambi un sorriso, non solo per l'equilibrio precario (una posizione difficile da mantenere a lungo... ) ma anche per i dettagli realistici, come il gilet sbottonato e gli stivali polverosi.
Alcuni anni dopo, Kramskoj ritrasse Šiškin in modo "tradizionale": abito scuro, sfondo uniforme, posa statica. Il tempo passa per tutti e, rispetto a questo primo ritratto così luminoso e pieno di energia, Ivan Šiškin ormai massiccio nel fisico e con l'espressione assorta sembra quasi un'altra persona.
🏞️ Ivan Nikolaevič Kramskoj
Ritratto di Ivan Ivanovič Šiškin (1873)
Galleria Tretjakov, Mosca
Cultura Italia-Russia
Testo di Emmanuela Castiglione
Ci sono diversi modi di fare un ritratto. C'è il ritratto importante, con lo sfondo monocromo, l'abito elegante e l'espressione seria. C'è il ritratto di genere: persone di una particolare categoria, di cui si evidenziano le caratteristiche. E poi c'è il ritratto che si fa ad un amico, trasferendo sulla tela il suo carattere e accompagnando il lavoro con affetto, complicità ed allegria.
Kramskoj e Šiškin: due Ivan, due artisti, due amici. Šiškin, il più celebre fra i paesaggisti russi, è ritratto da Kramskoj con immediatezza, in modo informale: appoggiato al bastone da passeggio, è pronto per una delle lunghissime escursioni ispiratrici dei suoi magnifici dipinti. Ha tutto il necessario: cappello a larga tesa, comodi stivali, ombrello parasole, borsa a tracolla con gli strumenti del mestiere.
Intorno a lui solo la natura, immersa nella luce del mattino che disegna lunghe ombre al suolo. Dove sta andando Ivan Šiškin così di buona lena? Nella foresta di conifere o in quella di querce? Dal suo sguardo, rivolto verso l'orizzonte, traspaiono la voglia e il piacere di vagare in libertà.
Chi avrà deciso la posa, l'autore o il modello? Di sicuro sarà scappato ad entrambi un sorriso, non solo per l'equilibrio precario (una posizione difficile da mantenere a lungo... ) ma anche per i dettagli realistici, come il gilet sbottonato e gli stivali polverosi.
Alcuni anni dopo, Kramskoj ritrasse Šiškin in modo "tradizionale": abito scuro, sfondo uniforme, posa statica. Il tempo passa per tutti e, rispetto a questo primo ritratto così luminoso e pieno di energia, Ivan Šiškin ormai massiccio nel fisico e con l'espressione assorta sembra quasi un'altra persona.
🏞️ Ivan Nikolaevič Kramskoj
Ritratto di Ivan Ivanovič Šiškin (1873)
Galleria Tretjakov, Mosca
Cultura Italia-Russia
Le mele di Puškin avevano un gusto poetico
Testo di Enrico Festa
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi aristocratici del XIX secolo, Aleksandr Puškin prediligeva il semplice cibo della cucina tradizionale russa. Adorava i piatti cucinati dalla sua tata, Arina Rodionovna, che era una figura importante per la sua vita. Fu la stessa Arina ad inculcare nell'anima del poeta l'amore per la cultura popolare ed il folklore. Puškin apprezzava i semplici pasti fatti in casa e li preferiva molto più dei sofisticati piatti stranieri. L'amico intimo Pëtr Vjazemskij disse: “Puškin non era una specie di buongustaio. Penso che non amasse nemmeno l'arte culinaria e non fosse neanche in grado di penetrarne i misteri, ma era un grande mangiatore di certe pietanze”. Tuttavia, una dieta a base di cibo tradizionale russo, non era una buona scelta per preservare una certa forma, quindi Puškin soleva digiunare per gran parte della giornata; fece di frutta e verdura in salamoia la sostanza principale del suo pasto, che si limitava rigorosamente a quello serale. Durante un soggiorno nella tenuta di Trigorskoje, verso mezzanotte, Puškin fu assalito da un languorino e chiese ai suoi ospiti di portargli delle mele in salamoia per uno spuntino notturno. Vjazemskij commentò così l’accaduto: "le mele in salamoia lo lasciarono estasiato". Si vociferava che le adorasse e che per lui fossero addirittura fonte di ispirazione. Questa frutta in salamoia conserva tutte le sue proprietà nutritive, con l’aggiunta di un sapore pungente ed un profumo piccante. Contengono un'enorme quantità di vitamina C e sono un modo naturale per combattere le infezioni. Sono anche ricche di calcio. Le mele utilizzate per questa ricetta dovrebbero essere piuttosto dure e di ottima qualità. È possibile utilizzare qualsiasi varietà tardiva o invernale, ma in Russia è spesso impiegata l'Antonovka.
Cultura Italia-Russia
Testo di Enrico Festa
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi aristocratici del XIX secolo, Aleksandr Puškin prediligeva il semplice cibo della cucina tradizionale russa. Adorava i piatti cucinati dalla sua tata, Arina Rodionovna, che era una figura importante per la sua vita. Fu la stessa Arina ad inculcare nell'anima del poeta l'amore per la cultura popolare ed il folklore. Puškin apprezzava i semplici pasti fatti in casa e li preferiva molto più dei sofisticati piatti stranieri. L'amico intimo Pëtr Vjazemskij disse: “Puškin non era una specie di buongustaio. Penso che non amasse nemmeno l'arte culinaria e non fosse neanche in grado di penetrarne i misteri, ma era un grande mangiatore di certe pietanze”. Tuttavia, una dieta a base di cibo tradizionale russo, non era una buona scelta per preservare una certa forma, quindi Puškin soleva digiunare per gran parte della giornata; fece di frutta e verdura in salamoia la sostanza principale del suo pasto, che si limitava rigorosamente a quello serale. Durante un soggiorno nella tenuta di Trigorskoje, verso mezzanotte, Puškin fu assalito da un languorino e chiese ai suoi ospiti di portargli delle mele in salamoia per uno spuntino notturno. Vjazemskij commentò così l’accaduto: "le mele in salamoia lo lasciarono estasiato". Si vociferava che le adorasse e che per lui fossero addirittura fonte di ispirazione. Questa frutta in salamoia conserva tutte le sue proprietà nutritive, con l’aggiunta di un sapore pungente ed un profumo piccante. Contengono un'enorme quantità di vitamina C e sono un modo naturale per combattere le infezioni. Sono anche ricche di calcio. Le mele utilizzate per questa ricetta dovrebbero essere piuttosto dure e di ottima qualità. È possibile utilizzare qualsiasi varietà tardiva o invernale, ma in Russia è spesso impiegata l'Antonovka.
Cultura Italia-Russia
Due fratelli, due principi, due santi: Boris e Gleb
Testo di Lorenzo Bartilucci
La chiesa ortodossa russa fa memoria, durante l’anno liturgico, di un grande numero di santi. Alcuni di essi sono stati vescovi, monaci, missionari e, in generale, chierici.
Non va dimenticato, però, che tra di loro trovano posto anche principi come, ad esempio, Boris e Gleb, i primi santi russi.
Questi due fratelli erano figli del principe Vladimir, al quale è legata la conversione della Rus’ nel 988.
Secondo la tradizione i due principi erano giovani istruiti, formati nelle Sacre Scritture e particolarmente devoti. Alla morte del padre il regno venne diviso, per volontà dello stesso, tra di dodici figli.
Il figlio primogenito, Svjatopolk, non contento della decisione paterna intraprese una campagna per uccidere gli altri fratelli.
Nonostante i sicari di Svjatopolk fossero ormai alle porte, i due santi principi ebbero un atteggiamento profondamente cristiano: Boris licenziò le proprie guardie e attese con fermezza l’arrivo dei suoi assassini, i quali lo trafissero con le spade; Gleb, invece, venne sgozzato da uno dei suoi fedeli che era stato corrotto da Svjatopolk.
Pochi anni dopo il metropolita Giovanni di Kiev decise di portare i resti dei due santi in una chiesa e nel 1072 vennero canonizzati.
I santi principi Borsi e Gleb sono ricordati come esempi di non violenza e, come solitamente si dice nell’ambiente cristiano ortodosso, “portatori della passione”.
Se il padre Vladimir riuscì a far introdurre il cristianesimo nella Rus’ grazie al battesimo suo e del popolo, i figli Boris e Gleb conquistarono il cuore di molti e permisero alla nuova fede di diffondersi in modo massiccio e profondo.
Img: icona fine XIII - inizi XIV sec.
Cultura Italia-Russia
Testo di Lorenzo Bartilucci
La chiesa ortodossa russa fa memoria, durante l’anno liturgico, di un grande numero di santi. Alcuni di essi sono stati vescovi, monaci, missionari e, in generale, chierici.
Non va dimenticato, però, che tra di loro trovano posto anche principi come, ad esempio, Boris e Gleb, i primi santi russi.
Questi due fratelli erano figli del principe Vladimir, al quale è legata la conversione della Rus’ nel 988.
Secondo la tradizione i due principi erano giovani istruiti, formati nelle Sacre Scritture e particolarmente devoti. Alla morte del padre il regno venne diviso, per volontà dello stesso, tra di dodici figli.
Il figlio primogenito, Svjatopolk, non contento della decisione paterna intraprese una campagna per uccidere gli altri fratelli.
Nonostante i sicari di Svjatopolk fossero ormai alle porte, i due santi principi ebbero un atteggiamento profondamente cristiano: Boris licenziò le proprie guardie e attese con fermezza l’arrivo dei suoi assassini, i quali lo trafissero con le spade; Gleb, invece, venne sgozzato da uno dei suoi fedeli che era stato corrotto da Svjatopolk.
Pochi anni dopo il metropolita Giovanni di Kiev decise di portare i resti dei due santi in una chiesa e nel 1072 vennero canonizzati.
I santi principi Borsi e Gleb sono ricordati come esempi di non violenza e, come solitamente si dice nell’ambiente cristiano ortodosso, “portatori della passione”.
Se il padre Vladimir riuscì a far introdurre il cristianesimo nella Rus’ grazie al battesimo suo e del popolo, i figli Boris e Gleb conquistarono il cuore di molti e permisero alla nuova fede di diffondersi in modo massiccio e profondo.
Img: icona fine XIII - inizi XIV sec.
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Riscoprire un classico della letteratura: "il demone meschino" di Sologub
Testo di Luca Taglianetti
Dopo oltre 50 anni dall'ultima edizione a cura di Zveteremich, torna in Italia, in una nuova traduzione, un classico della letteratura russa, "Il demone meschino" di Fëdor Sologub. Peredonov, protagonista del romanzo, è il classico antieroe cinico e amorale in cui, però, riconosciamo alcune delle paranoie e delle manie dell'uomo moderno, assillato dalle proprie nevrosi. Ottuso e superstizioso, scialbo nel suo lavoro, Peredonov è ossessionato dall'idea di diventare ispettore, chiuso in un narcisismo maniacale, solo per potersi rivalere nei confronti dei suoi amici e conoscenti; in lui non c'è nessuna aspirazione al bene. Peredonov si muove sullo sfondo di una città grigia e cupa, e che sembra riflettere costantemente il suo stato d'animo arcigno, circondato da una serie di personaggi grotteschi e affaristi, tutti spinti da un solo desiderio, poter trarre vantaggio dall'altro. Ma questi sono solo alcuni dei temi affrontati da un capolavoro dimenticato della letteratura (c'è anche spazio per l'amore tra Saša e Ljudmila, o per la figura controversa di Volodin), che oggi può essere (ri)scoperto dal lettore italiano. In Italia "Il demone meschino" è stato pubblicato di recente da Fazi, con la traduzione di Silvia Carli.
Cultura Italia-Russia
Testo di Luca Taglianetti
Dopo oltre 50 anni dall'ultima edizione a cura di Zveteremich, torna in Italia, in una nuova traduzione, un classico della letteratura russa, "Il demone meschino" di Fëdor Sologub. Peredonov, protagonista del romanzo, è il classico antieroe cinico e amorale in cui, però, riconosciamo alcune delle paranoie e delle manie dell'uomo moderno, assillato dalle proprie nevrosi. Ottuso e superstizioso, scialbo nel suo lavoro, Peredonov è ossessionato dall'idea di diventare ispettore, chiuso in un narcisismo maniacale, solo per potersi rivalere nei confronti dei suoi amici e conoscenti; in lui non c'è nessuna aspirazione al bene. Peredonov si muove sullo sfondo di una città grigia e cupa, e che sembra riflettere costantemente il suo stato d'animo arcigno, circondato da una serie di personaggi grotteschi e affaristi, tutti spinti da un solo desiderio, poter trarre vantaggio dall'altro. Ma questi sono solo alcuni dei temi affrontati da un capolavoro dimenticato della letteratura (c'è anche spazio per l'amore tra Saša e Ljudmila, o per la figura controversa di Volodin), che oggi può essere (ri)scoperto dal lettore italiano. In Italia "Il demone meschino" è stato pubblicato di recente da Fazi, con la traduzione di Silvia Carli.
Cultura Italia-Russia
8 agosto, la Giornata mondiale del gatto.
Il gatto nella cultura russa: maligno,ma anche protettore e babysitter!
Testo di Marco Massacesi
Il gatto (in russo “кот”) è una figura molto radicata nelle culture di vari popoli, protagonista di leggende, tradizioni e fiabe. Nella cultura russa è presente sin dai tempi degli antichi slavi, per i quali era un personaggio buono e cattivo allo stesso tempo. Era certamente una figura sinistra, perché streghe e spiriti maligni potevano trasformarsi in gatti ed andare tra la gente per fare sortilegi e portare sventure. Aveva tuttavia anche un significato positivo: era il protettore della casa, perché sapeva parlare con gli spiriti malvagi e mediare con essi, affinché si tenessero lontani dalla casa. Non solo, ma si credeva anche che il gatto tenesse d'occhio i bambini quando i genitori erano fuori casa.
I gatti sono personaggi fantastici di tanti racconti, come il gatto di Baba Jaga ed il gatto Bajun, un gatto cantastorie che, con la propria abilità oratoria, attira l'interesse dei passanti e li incanta, per poi mangiarseli. Coloro che però riescono a resistergli ed a catturarlo guariscono da tutte le malattie, perché i racconti di Bajun hanno un potere curativo.
Nel panorama letterario russo, il gatto più famoso è senza dubbio Behemot, personaggio de 𝘐𝘭 𝘮𝘢𝘦𝘴𝘵𝘳𝘰 𝘦 𝘔𝘢𝘳𝘨𝘩𝘦𝘳𝘪𝘵𝘢 di Bulgakov: è il gatto che accompagna il diavolo in persona, quindi vi lascio immaginare cosa combina!
Sapete che in passato era usanza, tra i marinai russi, portare a bordo tanti gatti? Sembrava che nelle navi ci fossero più gatti che persone! Era il loro modo di proteggere le navi dai topi... e di avere una simpatica compagnia durante il viaggio!
Cultura Italia-Russia
Il gatto nella cultura russa: maligno,ma anche protettore e babysitter!
Testo di Marco Massacesi
Il gatto (in russo “кот”) è una figura molto radicata nelle culture di vari popoli, protagonista di leggende, tradizioni e fiabe. Nella cultura russa è presente sin dai tempi degli antichi slavi, per i quali era un personaggio buono e cattivo allo stesso tempo. Era certamente una figura sinistra, perché streghe e spiriti maligni potevano trasformarsi in gatti ed andare tra la gente per fare sortilegi e portare sventure. Aveva tuttavia anche un significato positivo: era il protettore della casa, perché sapeva parlare con gli spiriti malvagi e mediare con essi, affinché si tenessero lontani dalla casa. Non solo, ma si credeva anche che il gatto tenesse d'occhio i bambini quando i genitori erano fuori casa.
I gatti sono personaggi fantastici di tanti racconti, come il gatto di Baba Jaga ed il gatto Bajun, un gatto cantastorie che, con la propria abilità oratoria, attira l'interesse dei passanti e li incanta, per poi mangiarseli. Coloro che però riescono a resistergli ed a catturarlo guariscono da tutte le malattie, perché i racconti di Bajun hanno un potere curativo.
Nel panorama letterario russo, il gatto più famoso è senza dubbio Behemot, personaggio de 𝘐𝘭 𝘮𝘢𝘦𝘴𝘵𝘳𝘰 𝘦 𝘔𝘢𝘳𝘨𝘩𝘦𝘳𝘪𝘵𝘢 di Bulgakov: è il gatto che accompagna il diavolo in persona, quindi vi lascio immaginare cosa combina!
Sapete che in passato era usanza, tra i marinai russi, portare a bordo tanti gatti? Sembrava che nelle navi ci fossero più gatti che persone! Era il loro modo di proteggere le navi dai topi... e di avere una simpatica compagnia durante il viaggio!
Cultura Italia-Russia
Forwarded from Olga V. Petukhova: cultura russa
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Visto che oggi è la giornata mondiale del gatto 😊: “— Stanno nuotando benissimo!
- Chi?
— Quel gruppo in costume da bagno a righe”.
Una scena della spiaggia dal film "Striped Flight", 1961. ( «Полосатый рейс»).
- Chi?
— Quel gruppo in costume da bagno a righe”.
Una scena della spiaggia dal film "Striped Flight", 1961. ( «Полосатый рейс»).
"Padri e figli" di Ivan Turgenev
Testo di Renato Dal Cavaliere
"Un nichilista è un uomo che non si inclina a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato." Non a caso, "Il nichilismo”, si intitolava la prima traduzione italiana di "Padri e figli" pubblicata nel 1879. Pur non coincidendo temporalmente con le vicende narrate, gli interpreti, Nikolai e Pavel Kirsanov, rispettivamente zio e padre di Arcadij e l’amico Bazarov, vivono un periodo di transizione della società russa; nel 1861 era stata proclamata l’emancipazione dei servi della gleba e proprio nella tenuta di Mar’ino si intravvedono i segnali del decadimento economico della proprietà terriera.
Non ci sono più le entrate con le tasse pagate dai contadini, i debiti aumentano, e la terra comincia ad essere venduta. Per i fratelli Kirsanov la preoccupazione costante è l’amministrazione dei beni. Nei "padri", spesso di idee liberali, ma deboli e inconsistenti, Turgenev riconosceva caratteristiche sue e dei suoi coetanei; egli evitò a ragion veduta di attribuire loro tratti smaccatamente negativi (crudeltà, corruzione, sfruttamento dei contadini), affinché la ribellione dei "figli" non sembrasse nata da motivazioni psicologiche individuali, ma ne emergesse il valore storico, generazionale. Bazarov è figlio di un medico, studente egli stesso di medicina, appartiene al ceto dei raznocincy, i non nobili che stavano entrando nella società russa con idee nuove e radicali. Bazarov rappresenta un fenomeno inedito, non cerca seguaci, anche il suo aspetto esteriore è trasandato, è contrario alle convenzioni sociali. Concludendo: "Padri e figli" è la sottile analisi del conflitto generazionale che dominò gli anni Sessanta in Russia: ai padri aristocratici idealisti, immobili nella loro privilegiata sclerosi, si oppongono i figli, antidealisti, democratici, materialisti, nichilisti.
Cultura Italia-Russia
Testo di Renato Dal Cavaliere
"Un nichilista è un uomo che non si inclina a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato." Non a caso, "Il nichilismo”, si intitolava la prima traduzione italiana di "Padri e figli" pubblicata nel 1879. Pur non coincidendo temporalmente con le vicende narrate, gli interpreti, Nikolai e Pavel Kirsanov, rispettivamente zio e padre di Arcadij e l’amico Bazarov, vivono un periodo di transizione della società russa; nel 1861 era stata proclamata l’emancipazione dei servi della gleba e proprio nella tenuta di Mar’ino si intravvedono i segnali del decadimento economico della proprietà terriera.
Non ci sono più le entrate con le tasse pagate dai contadini, i debiti aumentano, e la terra comincia ad essere venduta. Per i fratelli Kirsanov la preoccupazione costante è l’amministrazione dei beni. Nei "padri", spesso di idee liberali, ma deboli e inconsistenti, Turgenev riconosceva caratteristiche sue e dei suoi coetanei; egli evitò a ragion veduta di attribuire loro tratti smaccatamente negativi (crudeltà, corruzione, sfruttamento dei contadini), affinché la ribellione dei "figli" non sembrasse nata da motivazioni psicologiche individuali, ma ne emergesse il valore storico, generazionale. Bazarov è figlio di un medico, studente egli stesso di medicina, appartiene al ceto dei raznocincy, i non nobili che stavano entrando nella società russa con idee nuove e radicali. Bazarov rappresenta un fenomeno inedito, non cerca seguaci, anche il suo aspetto esteriore è trasandato, è contrario alle convenzioni sociali. Concludendo: "Padri e figli" è la sottile analisi del conflitto generazionale che dominò gli anni Sessanta in Russia: ai padri aristocratici idealisti, immobili nella loro privilegiata sclerosi, si oppongono i figli, antidealisti, democratici, materialisti, nichilisti.
Cultura Italia-Russia
Isola di Kiži
Testo di Paola Varalli
L'isola Kiži è caratterizzata da un insieme di chiese in legno, cappelle e case. È una delle destinazioni turistiche più famose del Paese, nonché uno dei Patrimoni mondiali dell'umanità in Russia.
A tutti gli effetti l'isola Kiži è uno dei più grandi musei all'aperto della Russia. Si tratta di un complesso storico, culturale e naturale unico inserito nel Codice dei siti del patrimonio culturale più significativo dei popoli della Federazione Russa. La base della collezione del museo è l'insieme architettonico del Pogost di Kiži. Il museo ricerca, preserva e diffonde la cultura dei popoli nativi della Carelia da oltre 40 anni. L'isola è lunga circa 7 chilometri e larga mezzo chilometro. È circondata da altre 5.000 isole, molte delle quali sono di dimensioni estremamente ridotte, alcune di soli 2 metri per 2, altre sono lunghe anche 35 chilometri. Pogost di Kiži, nome col quale è conosciuto in russo, è un antico insediamento che riunisce più di 100 villaggi del sedicesimo secolo. La temperatura media in inverno è di -10 °С, in estate +16 °С. La precipitazione annuale è in media di 650 mm.
Nel 2001 il museo fu dotato dello status di istituto culturale statale federale.
Cultura Italia-Russia
Testo di Paola Varalli
L'isola Kiži è caratterizzata da un insieme di chiese in legno, cappelle e case. È una delle destinazioni turistiche più famose del Paese, nonché uno dei Patrimoni mondiali dell'umanità in Russia.
A tutti gli effetti l'isola Kiži è uno dei più grandi musei all'aperto della Russia. Si tratta di un complesso storico, culturale e naturale unico inserito nel Codice dei siti del patrimonio culturale più significativo dei popoli della Federazione Russa. La base della collezione del museo è l'insieme architettonico del Pogost di Kiži. Il museo ricerca, preserva e diffonde la cultura dei popoli nativi della Carelia da oltre 40 anni. L'isola è lunga circa 7 chilometri e larga mezzo chilometro. È circondata da altre 5.000 isole, molte delle quali sono di dimensioni estremamente ridotte, alcune di soli 2 metri per 2, altre sono lunghe anche 35 chilometri. Pogost di Kiži, nome col quale è conosciuto in russo, è un antico insediamento che riunisce più di 100 villaggi del sedicesimo secolo. La temperatura media in inverno è di -10 °С, in estate +16 °С. La precipitazione annuale è in media di 650 mm.
Nel 2001 il museo fu dotato dello status di istituto culturale statale federale.
Cultura Italia-Russia
50 anni fa, l'11 agosto 1973, è uscita la serie TV di culto "17 Attimi di primavera" ("17 Мгновений весны").
Diretto magistralmente da Tat’jana Lioznova e girato in bianco e nero “17 attimi di primavera” è una serie televisiva finora amatissima in Russia. Il protagonista è il colonnello Maxim Isaev (interpretato da Vjačeslav Tichonov) infiltrato nelle SS col nome di Max Otto von Stierlitz durante la II Guerra Mondiale.
Talvolta gli appassionati di Stierlitz lo definiscono come “il James Bond russo” ma a differenza del personaggio di Fleming, il nostro eroe è malinconico, a volte trasognato e persino stanco. Ad esempio durante un appostamento si addormenta in macchina e viene inquadrato così per alcuni minuti mentre la voce fuori campo prosegue con la narrazione. In più c'è molto realismo: armi che si inceppano, strumenti che non funzionano.
Stierlitz pensa solo al lavoro e alla sua missione ma non è un giustiziere e nemmeno un violento nonostante la sua prestanza fisica. Ha una moglie che non vede da anni, da quando è iniziata la sua missione. Ancora oggi la scena in cui incontra la donna alla quale non può parlare a rischio della sua copertura è considerata dal pubblico russo una delle più romantiche della storia della televisione.
All'inizio è quasi impossibile crederlo un agente segreto che si spaccia per lo Standartenführer von Stierlitz. Lo spettatore viene indotto in inganno per tutta la prima puntata e solo nella seconda si svela l'identità di Isaev, quando lo si vede mentre in segreto ascolta radio Tajga 5 (equivalente di Radio Londra) e prende appunti; un messaggio cifrato, ordini dalla Russia: il colonnello Isaev deve scoprire chi tra i gerarchi nazisti sta approntando, in quella primavera del 1945, accordi segreti con gli USA ai danni dell’URSS. Da sottolineare i tanti inserimenti documentaristici autentici e una selezione di brani musicali di respiro internazionale (memorabile Edith Piaf con Milord e Je ne regrette rien).
📷 Vjačeslav Tichonov
Di Katia Ceccarelli.
Film 🎥
Cultura Italia-Russia
Diretto magistralmente da Tat’jana Lioznova e girato in bianco e nero “17 attimi di primavera” è una serie televisiva finora amatissima in Russia. Il protagonista è il colonnello Maxim Isaev (interpretato da Vjačeslav Tichonov) infiltrato nelle SS col nome di Max Otto von Stierlitz durante la II Guerra Mondiale.
Talvolta gli appassionati di Stierlitz lo definiscono come “il James Bond russo” ma a differenza del personaggio di Fleming, il nostro eroe è malinconico, a volte trasognato e persino stanco. Ad esempio durante un appostamento si addormenta in macchina e viene inquadrato così per alcuni minuti mentre la voce fuori campo prosegue con la narrazione. In più c'è molto realismo: armi che si inceppano, strumenti che non funzionano.
Stierlitz pensa solo al lavoro e alla sua missione ma non è un giustiziere e nemmeno un violento nonostante la sua prestanza fisica. Ha una moglie che non vede da anni, da quando è iniziata la sua missione. Ancora oggi la scena in cui incontra la donna alla quale non può parlare a rischio della sua copertura è considerata dal pubblico russo una delle più romantiche della storia della televisione.
All'inizio è quasi impossibile crederlo un agente segreto che si spaccia per lo Standartenführer von Stierlitz. Lo spettatore viene indotto in inganno per tutta la prima puntata e solo nella seconda si svela l'identità di Isaev, quando lo si vede mentre in segreto ascolta radio Tajga 5 (equivalente di Radio Londra) e prende appunti; un messaggio cifrato, ordini dalla Russia: il colonnello Isaev deve scoprire chi tra i gerarchi nazisti sta approntando, in quella primavera del 1945, accordi segreti con gli USA ai danni dell’URSS. Da sottolineare i tanti inserimenti documentaristici autentici e una selezione di brani musicali di respiro internazionale (memorabile Edith Piaf con Milord e Je ne regrette rien).
📷 Vjačeslav Tichonov
Di Katia Ceccarelli.
Film 🎥
Cultura Italia-Russia
Romeo e Giulietta di Prokofiev
Testo di Anna Maria Polidori
Una volta tornato in Russia definitivamente, Prokofiev cominciò a collaborare con il teatro Kirov (Mariijnskij). I dirigenti stavano pensando a qualche nuovo balletto strappalacrime. Erano state prese in considerazione diverse storie d'amore. Tristano e Isotta non pareva essere una cattiva idea, però quando venne espresso il desiderio di sviluppare Romeo e Giulietta, oh! Il genio musicale scrisse: "Mi sono aggrappato immediatamente....Non si può trovare niente di meglio!"
Eppure il Kirov non firmò il contratto. Lo fece il Bolshoi che gli mise a disposizione una stanza della casa di riposo del teatro per comporre.
Nel 1935 fu così che venne completata la musica ma all'ascolto non piacque per niente.
Non ci si può credere, eppure quella che doveva essere una prima rappresentazione a Mosca venne definitivamente cancellata perché impensierivano i passi troppo difficili su una musica in continuo divenire. Ci fu chi non ebbe paura dei passi e diede fiducia: accadde a Brno in Cecoslovacchia tre anni più tardi, il 30 dicembre 1938. Prokofiev su insistenza del coreografo fu costretto ad aggiungere più musica per fare ancor più corposa la partitura, cosa che, da principio, lo indispettì non poco.
Cultura Italia-Russia
Testo di Anna Maria Polidori
Una volta tornato in Russia definitivamente, Prokofiev cominciò a collaborare con il teatro Kirov (Mariijnskij). I dirigenti stavano pensando a qualche nuovo balletto strappalacrime. Erano state prese in considerazione diverse storie d'amore. Tristano e Isotta non pareva essere una cattiva idea, però quando venne espresso il desiderio di sviluppare Romeo e Giulietta, oh! Il genio musicale scrisse: "Mi sono aggrappato immediatamente....Non si può trovare niente di meglio!"
Eppure il Kirov non firmò il contratto. Lo fece il Bolshoi che gli mise a disposizione una stanza della casa di riposo del teatro per comporre.
Nel 1935 fu così che venne completata la musica ma all'ascolto non piacque per niente.
Non ci si può credere, eppure quella che doveva essere una prima rappresentazione a Mosca venne definitivamente cancellata perché impensierivano i passi troppo difficili su una musica in continuo divenire. Ci fu chi non ebbe paura dei passi e diede fiducia: accadde a Brno in Cecoslovacchia tre anni più tardi, il 30 dicembre 1938. Prokofiev su insistenza del coreografo fu costretto ad aggiungere più musica per fare ancor più corposa la partitura, cosa che, da principio, lo indispettì non poco.
Cultura Italia-Russia
Blìnciki (блинчики): dalla Russia la base perfetta per sbizzarrirsi in cucina
Dalla colazione alla cena come antipasto, portata principale o dolce, passando per gli spuntini, i Blìnciki rappresentano il preparato fondamentale per una serie di ricette potenzialmente infinita. L'unico limite è costituito dalla fantasia di coloro che si mettono ai fornelli premiando, a seconda delle occasioni e della personale ispirazione, la voglia di gustare antichi sapori o, viceversa, di cucinare nella massima libertà, superando convenzioni e limiti, attraverso la sperimentazione. Sotto il profilo etimologico la parola Blìnciki, che indica al plurale questi preparati a base di latte e uova, è un vezzeggiativo: i Blinì sono più grandi, adatti ai pasti principali, e la radice del loro nome rimanda alla storpiatura del verbo mlìn, paleoucraino, che significa macinare. Il loro aspetto è simile alle crèpes francesi, così come gli ingredienti. Alcuni affermano vadano fatti lievitare e gonfiare, ma si tratta di una variante piuttosto che di una regola...e quanto i Russi amano le eccezioni? Per questo gli abbinamenti sono diversissimi tra loro, spaziando dalle farciture a base di ricotta a quelle a base di carne, arrivando alle marmellate o alle creme. Risultato? Impossibile non trovare una ricetta perfetta per i propri gusti.
Ingredienti: latte 500ml, 3 uova, 2 cucchiai di zucchero, 1/2 cucchiaino di sale, 200g di farina, 3 cucchiai di olio di girasole. Il composto si prepara sbattendo le uova con lo zucchero. Poi si aggiunge il latte tiepido e, in seguito, il sale, la farina e l'olio. Questa procedura permette di ottenere un composto cremoso, che a contatto con il piano di cottura rovente solidifica formando un morbido, sottile e soffice disco dal sapore neutro, ideale per avvolgere il ripieno che più aggrada. Uno dei più classici è quello a base di ricotta ed uvetta. Si possono anche, una volta finiti, ripassare al burro in padella... ma è solo per metabolismi da guerriero.
Testo di Gabriele Tansella
Cultura Italia-Russia
Dalla colazione alla cena come antipasto, portata principale o dolce, passando per gli spuntini, i Blìnciki rappresentano il preparato fondamentale per una serie di ricette potenzialmente infinita. L'unico limite è costituito dalla fantasia di coloro che si mettono ai fornelli premiando, a seconda delle occasioni e della personale ispirazione, la voglia di gustare antichi sapori o, viceversa, di cucinare nella massima libertà, superando convenzioni e limiti, attraverso la sperimentazione. Sotto il profilo etimologico la parola Blìnciki, che indica al plurale questi preparati a base di latte e uova, è un vezzeggiativo: i Blinì sono più grandi, adatti ai pasti principali, e la radice del loro nome rimanda alla storpiatura del verbo mlìn, paleoucraino, che significa macinare. Il loro aspetto è simile alle crèpes francesi, così come gli ingredienti. Alcuni affermano vadano fatti lievitare e gonfiare, ma si tratta di una variante piuttosto che di una regola...e quanto i Russi amano le eccezioni? Per questo gli abbinamenti sono diversissimi tra loro, spaziando dalle farciture a base di ricotta a quelle a base di carne, arrivando alle marmellate o alle creme. Risultato? Impossibile non trovare una ricetta perfetta per i propri gusti.
Ingredienti: latte 500ml, 3 uova, 2 cucchiai di zucchero, 1/2 cucchiaino di sale, 200g di farina, 3 cucchiai di olio di girasole. Il composto si prepara sbattendo le uova con lo zucchero. Poi si aggiunge il latte tiepido e, in seguito, il sale, la farina e l'olio. Questa procedura permette di ottenere un composto cremoso, che a contatto con il piano di cottura rovente solidifica formando un morbido, sottile e soffice disco dal sapore neutro, ideale per avvolgere il ripieno che più aggrada. Uno dei più classici è quello a base di ricotta ed uvetta. Si possono anche, una volta finiti, ripassare al burro in padella... ma è solo per metabolismi da guerriero.
Testo di Gabriele Tansella
Cultura Italia-Russia
Masha e Orso - Маша и медведь
Testo di Milena Rao
Masha e Orso è una fiaba della tradizione popolare russa trascritta da Aleksandr Afanasev ("Masha e Orso e altre fiabe russe", A. Puskin - A. Afanasev, illustrazioni di Ivan Bilibin, BUR Rizzoli, 2016).
Leggendola, sono inevitabili le similitudini con la nostra Cappuccetto Rosso. Se il lupo è stato infatti un animale totemico e di potere in tutta l'Europa antica, che ha assunto attributi negativi solo dopo l'avvento della religione cristiana, l'orso ha il medesimo ruolo in Russia e nei paesi balto-finnici. In questa fiaba la protagonista è sempre una bambina che si allontana dal proprio sentiero, il che suggerisce l'idea di una personalità anticonformista, che desidera scoprire nuovi orizzonti, proprio come l'europea Cappuccetto Rosso. Ma la differenza è che Masha si rivela molto più astuta della sua controparte occidentale. Non ha bisogno di nessun cacciatore e di alcun aiuto esterno per tornare a casa; fa ricorso unicamente alla propria furbizia. La fiaba rimarca la caratteristica di quasi tutte le fiabe russe, nelle quali le protagoniste femminili hanno un ruolo molto più attivo, sono compagne dei protagonisti maschili e non dipendenti da loro, e questo a sua volta rimanda al retaggio arcaico - slavo e baltico - di un femminile potente e onorato poiché riconosciuto nelle sue qualità fondamentali.
Diverso da Cappuccetto Rosso è anche il finale della fiaba, per nulla cruento, poiché Orso non viene ucciso ma si limita a fuggire via. Forse una fiaba più adatta da raccontare ai bambini.
Immagine di Nella Bosnia
Cultura Italia-Russia
Testo di Milena Rao
Masha e Orso è una fiaba della tradizione popolare russa trascritta da Aleksandr Afanasev ("Masha e Orso e altre fiabe russe", A. Puskin - A. Afanasev, illustrazioni di Ivan Bilibin, BUR Rizzoli, 2016).
Leggendola, sono inevitabili le similitudini con la nostra Cappuccetto Rosso. Se il lupo è stato infatti un animale totemico e di potere in tutta l'Europa antica, che ha assunto attributi negativi solo dopo l'avvento della religione cristiana, l'orso ha il medesimo ruolo in Russia e nei paesi balto-finnici. In questa fiaba la protagonista è sempre una bambina che si allontana dal proprio sentiero, il che suggerisce l'idea di una personalità anticonformista, che desidera scoprire nuovi orizzonti, proprio come l'europea Cappuccetto Rosso. Ma la differenza è che Masha si rivela molto più astuta della sua controparte occidentale. Non ha bisogno di nessun cacciatore e di alcun aiuto esterno per tornare a casa; fa ricorso unicamente alla propria furbizia. La fiaba rimarca la caratteristica di quasi tutte le fiabe russe, nelle quali le protagoniste femminili hanno un ruolo molto più attivo, sono compagne dei protagonisti maschili e non dipendenti da loro, e questo a sua volta rimanda al retaggio arcaico - slavo e baltico - di un femminile potente e onorato poiché riconosciuto nelle sue qualità fondamentali.
Diverso da Cappuccetto Rosso è anche il finale della fiaba, per nulla cruento, poiché Orso non viene ucciso ma si limita a fuggire via. Forse una fiaba più adatta da raccontare ai bambini.
Immagine di Nella Bosnia
Cultura Italia-Russia
L'acero: l'albero della reincarnazione e della musica
Testo di Marco Massacesi
Per gli antichi slavi anche l'acero (in russo "клён", che si pronuncia "kliòn") era un albero dai poteri magici: lo consideravano l'albero della reincarnazione, perché credevano che in ogni acero fosse presente l'anima di una persona in procinto di reincarnarsi. È per questo motivo che la legna di acero non era usata per accendere il fuoco. Il parallelismo tra l'acero e l'essere umano era simboleggiato dalla foglia dell'acero, che ha cinque punte: cinque come i sensi e le dita della mano. E non era solo l'anima di un individuo a dimorare nell'acero: c'erano anche degli spiriti divini, che proteggevano le persone. Ecco perché sopra le porte delle case veniva appeso un disco di legno d'acero, raffigurante il sole, ed anche i gradini davanti alla porta erano in legno d'acero: in tal modo il focolare domestico era protetto dagli spiriti del male.
Il legno di acero non era usato per ardere, ma era impiegato nella costruzione di strumenti musicali; da qui il nomignolo "albero della canzone". In legno d'acero venivano costruiti anche pettini e ruote.
Nella letteratura russa, Turgenev si è ispirato alla foglia dell'acero per trarre un riflessione esistenziale. Infatti Arkadij, uno dei personaggi del suo romanzo 𝘗𝘢𝘥𝘳𝘪 𝘦 𝘧𝘪𝘨𝘭𝘪, vedendo una foglia d'acero cadere a terra, inizia a riflettere su quanto il cadere della foglia assomigli al volo di una farfalla, e si stupisce di come sia strano che spesso una cosa triste, come una foglia ormai morta, possa assomigliare ad una cosa bella e gioiosa, come il volo di una farfalla. Turgenev non è stato il solo ad ispirarsi all'acero; ad esempio, Esenin cita spesso quest'albero nei versi delle proprie poesie.
Che dire... chissà se un giorno le nostre anime andranno dentro un acero e si reincarneranno in altre persone!
Img: V. Pachomov
Testo di Marco Massacesi
Cultura Italia-Russia
Testo di Marco Massacesi
Per gli antichi slavi anche l'acero (in russo "клён", che si pronuncia "kliòn") era un albero dai poteri magici: lo consideravano l'albero della reincarnazione, perché credevano che in ogni acero fosse presente l'anima di una persona in procinto di reincarnarsi. È per questo motivo che la legna di acero non era usata per accendere il fuoco. Il parallelismo tra l'acero e l'essere umano era simboleggiato dalla foglia dell'acero, che ha cinque punte: cinque come i sensi e le dita della mano. E non era solo l'anima di un individuo a dimorare nell'acero: c'erano anche degli spiriti divini, che proteggevano le persone. Ecco perché sopra le porte delle case veniva appeso un disco di legno d'acero, raffigurante il sole, ed anche i gradini davanti alla porta erano in legno d'acero: in tal modo il focolare domestico era protetto dagli spiriti del male.
Il legno di acero non era usato per ardere, ma era impiegato nella costruzione di strumenti musicali; da qui il nomignolo "albero della canzone". In legno d'acero venivano costruiti anche pettini e ruote.
Nella letteratura russa, Turgenev si è ispirato alla foglia dell'acero per trarre un riflessione esistenziale. Infatti Arkadij, uno dei personaggi del suo romanzo 𝘗𝘢𝘥𝘳𝘪 𝘦 𝘧𝘪𝘨𝘭𝘪, vedendo una foglia d'acero cadere a terra, inizia a riflettere su quanto il cadere della foglia assomigli al volo di una farfalla, e si stupisce di come sia strano che spesso una cosa triste, come una foglia ormai morta, possa assomigliare ad una cosa bella e gioiosa, come il volo di una farfalla. Turgenev non è stato il solo ad ispirarsi all'acero; ad esempio, Esenin cita spesso quest'albero nei versi delle proprie poesie.
Che dire... chissà se un giorno le nostre anime andranno dentro un acero e si reincarneranno in altre persone!
Img: V. Pachomov
Testo di Marco Massacesi
Cultura Italia-Russia
Buon Ferragosto!
Foto: Yuri Gagarin in vacanza al mare con la moglie Valentina e la figlia Elena.
Cultura Italia-Russia
Foto: Yuri Gagarin in vacanza al mare con la moglie Valentina e la figlia Elena.
Cultura Italia-Russia
Le miniature laccate di Fedoskino
“Sazio, ubriaco e con il naso nel tabacco”, così si usava un tempo riferirsi ad una persona di successo, a cui la vita non ha fatto mai mancare nulla. Si può star certi che Pëtr Ivanovič Korobov, mercante appartenente alla prima gilda, conosceva il senso di questa espressione. Nel 1798 avviò una produzione di oggetti laccati quali tabacchiere, portagioie e scatolette. I manufatti in cartapesta venivano ricoperti da alcuni strati di lacca e sul coperchio veniva attaccata una stampa. In seguito l’attività passò nelle mani del genero di Korobov, Pëtr Lukutin, che fece costruire una fabbrica nel villaggio di Fedoskino, nei pressi di Mosca. In questa fabbrica si iniziò a dipingere tabacchiere e cofanetti utilizzando una tecnica particolare e ispirandosi ai motivi più amati nella Rus’: trojke, cerimonie del tè, cupole, scene prese dalla vita quotidiana, copie di dipinti di pittori celebri. Per l’eccellente qualità della produzione, un decreto imperiale diede a Lukutin il diritto di apporre sui suoi manufatti l’aquila dorata bicefala, stemma imperiale.
Certo, per la storia 200 e passa anni non sono nulla, ma per i maestri del villaggio di Fedoskino, virtuosi dell’arte della laccatura, rappresentano la vita di non poche generazioni. Ora come un tempo, i maestri preparano i cofanetti di cartapesta, li dipingono con colori ad olio usando la speciale tecnica propria di Fedoskino, che prevede l’aggiunta di sottili foglie d’oro, polvere di vari metalli e di madreperla. Ricoprono il tutto con alcuni strati di lacca e…
Eccola, la rappresentazione laccata della Russia: brillante, pittoresca e gioiosa!
Testo di Daria Kandinskaya
Cultura Italia-Russia
“Sazio, ubriaco e con il naso nel tabacco”, così si usava un tempo riferirsi ad una persona di successo, a cui la vita non ha fatto mai mancare nulla. Si può star certi che Pëtr Ivanovič Korobov, mercante appartenente alla prima gilda, conosceva il senso di questa espressione. Nel 1798 avviò una produzione di oggetti laccati quali tabacchiere, portagioie e scatolette. I manufatti in cartapesta venivano ricoperti da alcuni strati di lacca e sul coperchio veniva attaccata una stampa. In seguito l’attività passò nelle mani del genero di Korobov, Pëtr Lukutin, che fece costruire una fabbrica nel villaggio di Fedoskino, nei pressi di Mosca. In questa fabbrica si iniziò a dipingere tabacchiere e cofanetti utilizzando una tecnica particolare e ispirandosi ai motivi più amati nella Rus’: trojke, cerimonie del tè, cupole, scene prese dalla vita quotidiana, copie di dipinti di pittori celebri. Per l’eccellente qualità della produzione, un decreto imperiale diede a Lukutin il diritto di apporre sui suoi manufatti l’aquila dorata bicefala, stemma imperiale.
Certo, per la storia 200 e passa anni non sono nulla, ma per i maestri del villaggio di Fedoskino, virtuosi dell’arte della laccatura, rappresentano la vita di non poche generazioni. Ora come un tempo, i maestri preparano i cofanetti di cartapesta, li dipingono con colori ad olio usando la speciale tecnica propria di Fedoskino, che prevede l’aggiunta di sottili foglie d’oro, polvere di vari metalli e di madreperla. Ricoprono il tutto con alcuni strati di lacca e…
Eccola, la rappresentazione laccata della Russia: brillante, pittoresca e gioiosa!
Testo di Daria Kandinskaya
Cultura Italia-Russia
I ristoranti russi itineranti
Traduzione di Serena Dolci
I russi hanno una strana fobia: la paura di morire di fame mentre viaggiano in treno.
No, non è uno scherzo: essi portano con sé una quantità tale di cibo, che ogni carrozza si trasforma in una vera e propria carrozza-ristorante. Non appena il treno parte, tutti i passeggeri iniziano a divorare le loro leccornie che, naturalmente, vengono condivise con i vicini. Le pietanze obbligatorie da portare in trasferta? Pollo al cartoccio e uova sode bollite, ovviamente.
Molto spesso si creano anche forti amicizie tra i compagni di viaggio. Per la verità, non appena tutti scenderanno dal treno, non si vedranno mai più.
Cultura Italia-Russia
Traduzione di Serena Dolci
I russi hanno una strana fobia: la paura di morire di fame mentre viaggiano in treno.
No, non è uno scherzo: essi portano con sé una quantità tale di cibo, che ogni carrozza si trasforma in una vera e propria carrozza-ristorante. Non appena il treno parte, tutti i passeggeri iniziano a divorare le loro leccornie che, naturalmente, vengono condivise con i vicini. Le pietanze obbligatorie da portare in trasferta? Pollo al cartoccio e uova sode bollite, ovviamente.
Molto spesso si creano anche forti amicizie tra i compagni di viaggio. Per la verità, non appena tutti scenderanno dal treno, non si vedranno mai più.
Cultura Italia-Russia
Tolstoj e Dostoevskij secondo George Steiner
Testo di Giuseppe Russo
Il grande critico francese di origine austriaca George Steiner, nel suo studio «Tolstoj o Dostoevskij» (1959), è andato a fondo nell’analisi di analogie e differenze tra i due pesi massimi della letteratura russa del XIX secolo. Trovando nei rispettivi epistolari momenti decisivi nella comprensione del rapporto tra questi autori, le loro opere e i loro personaggi, Steiner ha dimostrato come ciascuno dei due avesse una visione del mondo meno uniforme e coerente di quanto si sia soliti pensare. Tolstoj, nel quale ha sempre operato un motivo aristotelico, sembrava temere l’eccessiva autonomia dei suoi personaggi e, in una lettera a Gor’kij, scriveva: «quando scrivo, provo improvvisamente pietà per un qualche personaggio, e allora gli do qualche qualità positiva, o ne tolgo qualcuna a qualcun altro, così che non possa apparire troppo nero» (l’aristotelico horror vacui, applicato non più alla realtà fisica ma a quella morale). Dostoevskij accettava la sfida della pluralità dei mondi «come verità evidente, mentre spesso la realtà empirica gli appare inconsistente e spettrale», ma proprio per questo irresistibilmente attraente. Potremmo dire che entrambi sembrano temere uno dei principali traguardi della civiltà occidentale, l’autodeterminazione del soggetto, ma laddove Tolstoj sembra certo che questo principio porterà alla rovina, Dostoevskij preferisce viaggiare insieme ai suoi personaggi e ai loro demoni senza farsi intimidire dal capolinea di questo percorso. I due non si incontrarono mai, questo va ricordato, ma quando Tolstoj ricevette la notizia della morte di Dostoevskij, scrisse a Strachov: «Ho improvvisamente capito che egli era per me il più prezioso, il più caro e il più necessario degli uomini».
Cultura Italia Russia
Testo di Giuseppe Russo
Il grande critico francese di origine austriaca George Steiner, nel suo studio «Tolstoj o Dostoevskij» (1959), è andato a fondo nell’analisi di analogie e differenze tra i due pesi massimi della letteratura russa del XIX secolo. Trovando nei rispettivi epistolari momenti decisivi nella comprensione del rapporto tra questi autori, le loro opere e i loro personaggi, Steiner ha dimostrato come ciascuno dei due avesse una visione del mondo meno uniforme e coerente di quanto si sia soliti pensare. Tolstoj, nel quale ha sempre operato un motivo aristotelico, sembrava temere l’eccessiva autonomia dei suoi personaggi e, in una lettera a Gor’kij, scriveva: «quando scrivo, provo improvvisamente pietà per un qualche personaggio, e allora gli do qualche qualità positiva, o ne tolgo qualcuna a qualcun altro, così che non possa apparire troppo nero» (l’aristotelico horror vacui, applicato non più alla realtà fisica ma a quella morale). Dostoevskij accettava la sfida della pluralità dei mondi «come verità evidente, mentre spesso la realtà empirica gli appare inconsistente e spettrale», ma proprio per questo irresistibilmente attraente. Potremmo dire che entrambi sembrano temere uno dei principali traguardi della civiltà occidentale, l’autodeterminazione del soggetto, ma laddove Tolstoj sembra certo che questo principio porterà alla rovina, Dostoevskij preferisce viaggiare insieme ai suoi personaggi e ai loro demoni senza farsi intimidire dal capolinea di questo percorso. I due non si incontrarono mai, questo va ricordato, ma quando Tolstoj ricevette la notizia della morte di Dostoevskij, scrisse a Strachov: «Ho improvvisamente capito che egli era per me il più prezioso, il più caro e il più necessario degli uomini».
Cultura Italia Russia
L’icona della Trasfigurazione nella tradizione ortodossa
Testo di Lorenzo Bartilucci
Durante il Digiuno della Dormizione, precisamente il 19 agosto (6 agosto per il calendario ecclesiastico), la chiesa ortodossa russa celebra la festa della Trasfigurazione del Signore.
La grandiosa icona che accompagna tale solennità è una delle più famose della cristianità: Cristo al centro dell’immagine, in abiti bianchi, sfolgorante di luce divina attorniato da Mosè ed Elia. Poco sotto i discepoli sbigottiti e increduli per quanto si sta manifestando davanti a loro. Ciò che cattura immediatamente lo sguardo è la rappresentazione del Signore: la luce che emana dal Suo volto rimanda alla Luce divina di cui parla il Simbolo delle Fede ma anche alla luce della Risurrezione di cui ne è chiara anticipazione.
Tutta la struttura iconografica è volta ad esprimere questa luminosità che promana dal Cristo. Ma c’è una particolarità: a mano a mano che si procede verso la fonte della luce (il Cristo), essa si fa più tenue diventando quasi tenebra nei pressi del Signore. Questo accorgimento cromatico sottolinea l’inconoscibilità di Dio, il Suo mistero.
Quella che, a prima vista, può sembrare una contraddizione iconografica è, invece, una lettura teologica dell’icona stessa:
il tentativo, da parte dell’uomo, di conoscere Dio nella sua natura non può concludersi con un successo. Dio è inconoscibile all’uomo. Da qui la luce scura che avvolge il Cristo. Solo grazie ad un atto di misericordia e di condiscendenza da parte del Signore l’uomo può entrare in contatto con Dio, può “conoscerlo” nella sua manifestazione di amore e di cura nei confronti delle creature che Egli ama. I fasci di luce indirizzati verso l’esterno simbolizzano questa dedizione di Dio verso l’uomo.
Icona dell'inizio del XV secolo dalla Cattedrale della Trasfigurazione nella città di Pereslavl-Zalesskij (ora conservata nella Galleria Tretjakov).
Cultura Italia Russia
Testo di Lorenzo Bartilucci
Durante il Digiuno della Dormizione, precisamente il 19 agosto (6 agosto per il calendario ecclesiastico), la chiesa ortodossa russa celebra la festa della Trasfigurazione del Signore.
La grandiosa icona che accompagna tale solennità è una delle più famose della cristianità: Cristo al centro dell’immagine, in abiti bianchi, sfolgorante di luce divina attorniato da Mosè ed Elia. Poco sotto i discepoli sbigottiti e increduli per quanto si sta manifestando davanti a loro. Ciò che cattura immediatamente lo sguardo è la rappresentazione del Signore: la luce che emana dal Suo volto rimanda alla Luce divina di cui parla il Simbolo delle Fede ma anche alla luce della Risurrezione di cui ne è chiara anticipazione.
Tutta la struttura iconografica è volta ad esprimere questa luminosità che promana dal Cristo. Ma c’è una particolarità: a mano a mano che si procede verso la fonte della luce (il Cristo), essa si fa più tenue diventando quasi tenebra nei pressi del Signore. Questo accorgimento cromatico sottolinea l’inconoscibilità di Dio, il Suo mistero.
Quella che, a prima vista, può sembrare una contraddizione iconografica è, invece, una lettura teologica dell’icona stessa:
il tentativo, da parte dell’uomo, di conoscere Dio nella sua natura non può concludersi con un successo. Dio è inconoscibile all’uomo. Da qui la luce scura che avvolge il Cristo. Solo grazie ad un atto di misericordia e di condiscendenza da parte del Signore l’uomo può entrare in contatto con Dio, può “conoscerlo” nella sua manifestazione di amore e di cura nei confronti delle creature che Egli ama. I fasci di luce indirizzati verso l’esterno simbolizzano questa dedizione di Dio verso l’uomo.
Icona dell'inizio del XV secolo dalla Cattedrale della Trasfigurazione nella città di Pereslavl-Zalesskij (ora conservata nella Galleria Tretjakov).
Cultura Italia Russia